Vincenzo Torcello

Ai lavori di Vincenzo Torcello bisogna accostarsi con discrezione perché qui come non mai è immanente il rischio di impoverire l’opera volendo “spiegarla”; se non di travisarla, tradirla in sostanza, intervenendovi con gli strumenti della dissezione analitica per ricomporne poi gli elementi in un “teorema” formale. Non è questione di buone intenzioni; queste “tessiture di silenzio” (l’espressione è sua) eludono ogni approccio inteso ad irretirle nella trama delle convenzioni culturali. Viene da parlare di un mondo pre-categoriale; ma il ricorso a Husserl -alla sua sospensione di giudizio sulla codificazione del reale – non aiuta; è pur sempre cultura, nell’accezione di falsa coscienza, di collante ideologico dell’esistente.
Queste opere si situano in uno spazio mentale impensato. Labili, oggettualmente, fanno attorno a sé il vuoto: di pre-giudizi, definizioni, proposizioni affermative. Di fatto, pongono forse la loro stessa natura di “opere d’arte” (e in ogni caso ne rifiutiamo lo statuto). Sono momenti di comunicazione fondati su un ritrovato rapporto di spontaneità o meglio di contiguità con le cose: il loro nudo essere, il loro darsi immediato. Lo smarcamento, rispetto ad una comune pratica dell’arte che rimanda ad una comune pratica del mondo, anche se non proclamato (manca ogni enfasi), è radicale; e si configura come liberazione e conquista.
Torcello vi è pervenuto procedendo per gradi in una linea di consequenzialità in cui i risultati di oggi sono inscritti nelle premesse. A monte di questi suoi ultimi lavori stanno i pannelli di compensato , la cui superficie è percorsa da un segno-solco tracciato da una punta abrasiva che al suo arresto lascia l’arricciarsi di un truciolo: il sublimarsi di un tessuto connettivo in esile, incorporeo elemento grafico.
E poi le plastiche: dalla materia utilizzata come supporto neutro alla materia trasparente. Nell’indifferenza, tra l’altro, verso la distinzione fra “naturale” e “artificiale”, che Torcello dà per superata (di più, ininfluente) assumendo ogni oggetto come intercambiabile; il che comporta di aderirvi senza lasciarsi coinvolgere e di evitare le tentazioni estetizzanti; si tratti del possibile rapporto affettivo con il materiale di elezione della manualità o, nel caso dei prodotti industriali, dalla suggestione esercitata dal loro asettico nitore. È qui ch’egli entra nella fase alta del suo lavoro: volumi che ritagliano attorno a sé, per avvolgimento, il vuoto; disadorne forme geometriche elementari; monosillabici “enunciati” plastici giocati su un gesto-intervento netto, immediato, che un’asticciola di ferro provvede a “fissare” bloccandoli: con un accostamento fra rigidità-spessore e obbediente flessibilità che ci dice l'”insignificanza”, anche linguistica, di queste opere.
Fino ai lavori attuali, punto di evoluzione di un discorso che Torcello ha portato avanti lavorando a levare, assottigliare, ridurre; a depurare depurandosi. E, in parallelo, aprendosi alla più larga e libera disponibilità verso i materiali, dal tessuto agli “oggetti senza qualità” a portata di mano. La misura del comporre, combinando insieme le cose raccolte, è pacata, dimessa, come a ripercorrere un grado primario dell’esercizio manuale. Alla semplificazione operativa, pre-artigianale, fa riscontro l’abolizione dell’opera in quanto evidenza, ingombro, occupazione dello spazio, di cui, si direbbe, non viene interrotta la continuità; nei teli-rettangoli ricadenti dall’alto, mossi: tagli, scarti minimali tra pieni e vuoti, sovrapposizioni che danno luogo ad appena avvertibili ispessimenti, sipari che anziché celare lasciano intravedere. È appunto, il rarefarsi delle cose, il loro sfumare fondendosi con il niente che le inscrive. Come nei lavori su carta velina trattata, a darle un minimo di consistenza, con una resina sintetica che vi deposita tenui tracce di “materia” informale. Superfici prive di peso che inserti di canniccio delimitano e ripartiscono, instaurando rapporti interni al campo (tensioni, raccordi) o ricavandovi riquadri e circonferenze. Se nell’aerea levità dei teli la forma geometrica si discioglie dialogando con l’ambiente, qui si dà come approssimazione e rudimentalità: Ricompaiono elementi grafici: nelle ramificazioni di un frammento di radici e nei tritumi vegetali disseminati sul supporto.

Si pone la questione dello scarto esistente tra questa personale esperienza e le proposte che oggi fanno testo (numerose, peraltro, così come si conviene alle esigenze di un’offerta diversificata sul mercato). È un’esperienza che rivela, già nell’approccio al fare artistico (se ancora vale parlare in questi termini), una condizione separata. Inattuale se vogliamo. Ma che acquista senso in quanto rivela un ritrarsi da un “qui ed ora” che anche per eccesso di classificazione ha prodotto disaffezione e afasia. Non è a questo che siamo, drammaticamente? Ecco dunque, per rovesciamento, la strinegente attualità di questo sommesso suggerimento a riarticolare gesti, azioni, linguaggio dopo aver attinto la dimensione del vuoto.

Stelio Rescio
Edizioni del Brandale, Savona, 1983
Testo critico per la mostra “Vincenzo Torcello” presso Il Brandale Centro d’Arte e Cultura di Savona, 1981