Testo Critico di Stelio Rescio

“Le estremità” (le persone più anziane lo ricorderanno) era il termine in uso per indicare educatamente i piedi. Così com’era d’obbligo, se proprio si voleva nominarli, premettere la formula di rito (“con licenza parlando”), avanzata quale scusante per la chiamata in causa di questa parte della nostra strumentazione fisica che il cerimoniale di un tempo, più incline a non sempre giustificati pudori, imponeva di rimuovere. Si può anche ricordare il detto “fatto con i piedi”, per definire in modo drasticamente negativo la maldestra esecuzione di un lavoro o – perché no? – di un’opera che, pur non avendone i requisiti, ha pretese di eccellenza artistica. Modi di dire che configurano una ingiusta sottovalutazione, se si tiene conto che essi adempiano alla funzione che distingue gli esseri umani da ogni altra specie animale: la stazione eretta.

All’opposto, può valere il punto di vista che si esprime nella raccomandazione, largamente diffusa, di “stare con i piedi per terra”. La metafora è chiara: badare alla concretezza , alla sana materialità delle cose.

In questa breve rassegna non può mancare il richiamo (Freud insegna) al “feticismo del piede”, che è per così dire “citato”, e con bella evidenza , nella copertina di un libro di aforismi pubblicato nel 1995 a cura delle edizioni D’ARS di Milano, dall’autore di cui ci accingiamo a parlare.

La premessa vale infatti ad avviare la riflessione sul più recente ciclo operativo di Vincenzo Torcello, che si è esercitato a lungo (decine e decine di opere su carta) su questo insolito tema, riproducendo in molteplici versioni l’impronta dei piedi. I propri, va da sé. Un esame, quello che ci accingiamo a condurre, che attiene sia alla modalità esecutiva sia ai significati che se ne possono dedurre.

È intanto da osservare che il lavoro di Torcello si distingue per la rinuncia ai mezzi convenuti della comunicazione per immagini (il pennello, od altro simile strumento, e l’impasto pittorico). Viene così abolito ogni tramite fra progetto ed esecuzione a vantaggio dell’immediatezza; di una stretta relazione con l’oggetto prescelto, il prosaico arto della deambulazione; una scelta che dichiara la volontà di liberazione da ogni schema e da alcunché di predeterminato, affondando le radici nel proprio humus esistenziale. Per non dire poi della funzione di questa parte anatomica nell’assicurare l’equilibrio della persona. Una annotazione che anche in questo caso rimanda ad una lettura in chiave metaforica; così come, nei casi che toccano da vicino la condizione individuale, in questo “calcare il suolo” si può individuare il punto fermo che consente sia la stabilità che la transizione da uno stato di tensione ad una condizione distesa, pacificata.

L’attuale fase dell’artista savonese – è segnata da una “primordialità” del fare quanto mai congeniale all’oggetto che ha assunto nel formulare il suo discorso per immagini. Un oggetto, se è consentito il gioco linguistico, “pedestre” ma che per quanto improbabile “artisticità” è dotato di una forte valenza espressiva. Su un piano più propriamente storico ci sembra più che evidente il richiamo alla lezione dadaista.

A ben guardare – riprendendo le osservazioni già riferite sulla immediatezza e “semplicità” che connotano l’attuale esperienza di Torcello – queste opere non si discostano da un suo lontano momento creativo, contrassegnato da una gestualità che oggi definiremmo minimalista. In quel caso l’intervento dava luogo ad un solco tracciato su sottili tavole di compensato che terminavano – unica concessione alla gradevolezza, in un contesto che si segnalava per una sorta di rigore puritano – nelle volute di un precario filamento “a ricciolo”. Il tratto che accomuna le due diverse esperienze è per l’appunto da cogliere nel gesto che elimina ogni intermediazione. La diversità rispetto ad allora – decisamente sostanziale – sta in una asettica smaterializzazione dell’opera, esente da ogni grumo di materia, che distingueva quella fase, laddove ad evidenziarsi, oggi, è la densa corposità delle immagini.

Curiosamente la gamma cromatica, molto ampia e tutt’altro che casuale, declina una “semantica del colore”, dove ad esempio l’indaco equivale alla condizione di stasi, l’arancione al movimento e agli impulsi vitali, e via di questo passo, in una ininterrotta sequenza nella quale di opera in opera il colore si fa meno acceso fino all’evanescenza.

Le impronte sono ottenute trattando la parte anatomica che poggia sul suolo con pigmenti di colore puro, mescolati con gomma arabica per assicurarne la “tenuta” nel tempo, in modo che la pressione su supporto cartaceo possa imprimere queste indelebili tracce. L’iterazione delle forme regolari perviene infine ad una soglia di rottura, oltre la quale le impronte subiscono un processo di destrutturazione: questa singolare icona si separa dalla funzione che gli è propria, acquistando infine lo statuto di immagine fine non altro che a sé stessa e, per riportare le parole dell’autore , «al suo sacrale e nudo rapporto con il mondo con il quale muove insieme con forza e semplicità per mezzo di questi suoi sogni “schiacciati” sulla terra».

Lasciando tracce egli sfiora senza volervi approdare, con il succedersi di una serie di passaggi intermedi, (deformazioni, torsioni, sovrapposizioni), la pittura informale.

Stelio Rescio
Testo Critico in catalogo “Vincenzo Torcello”, Edizioni del Brandale, 1998